Perché Abbiamo Cantato dai Balconi
Dopo poche settimane che ci siamo ritrovati chiusi in casa è partito il flash mob per cantare dai balconi alcune delle canzoni più famose della nostra cultura canora. Alcuni hanno visto in questa iniziativa un modo frivolo, se non addirittura irrispettoso, di vivere un periodo di emergenza che sta causando forti privazioni, grande stress emotivo e molti lutti. In realtà quello a cui abbiamo assistito è la risposta resiliente di un’intera comunità. Andiamo con ordine: ci troviamo di fronte ad un “evento critico” ovvero un evento che squarcia la normale routine e che richiede l’attivazione di processi di adattamento e di ristrutturazione emotiva. Di fronte a ciò l’essere umano attiva le competenze di resilienza orientando le proprie strategie di coping (comportamenti che incentivano il superamento dell’evento critico). Un esempio applicato a questi giorni può essere pianificare di ultimare quel progetto mai concluso, come finire di leggere un libro, sistemare le foto nell’album, terminare di fare un lavoro a maglia ecc. sostenuti dal pensiero che abbiamo il potere di decidere e orientare lo scorrere di queste lunghe giornate. È importante quale sia il retropensiero che determina la scelta delle azioni, poiché quel pensiero (se risponde alle caratteristiche resilienti) mette al riparo da ansia e stress. Oltre alle caratteristiche individuali di fronteggiamento abbiamo un altro grande fattore di protezione, le relazioni e il contatto con il prossimo, dai quali dipende la nostra capacità di sostenere lo stress. Siamo esseri sociali, abbiamo bisogno di sentirci parte di qualcosa, significativi per qualcuno, amati dai nostri cari. Ne è un buon esempio Tom Hanks, nel film “Cast Away”, che dopo aver provveduto al suo sostentamento fisico ha bisogno di creare un surrogato delle relazioni umane e crea “Wilson” (un pallone con disegnato un volto) che gli permetterà di sopravvivere all’enorme sfida dell’esilio relazionale. Non siamo in grado di vivere nell’isolamento, tanto meno quando affrontiamo una difficoltà. È purtroppo dimostrato che l’emarginazione, la pochezza di contatti umani porta con sé malattie psicologiche ma anche fisiche. Se pensiamo che si ammalano gli animali in situazioni di cattività forse ci verrà più facile immaginare quanto siamo predisposti come essere viventi al contatto con l’altro. Diventano così fattori predittivi di una risposta resiliente il sostegno affettivo, il coinvolgimento in attività sociali, l’intesa fra i genitori, il legame profondo con i figli, il sostegno da parte della famiglia allargata e delle persone per noi significative. In questa fase di emergenza, durante i colloqui svolti on line, molti mi hanno raccontato di aver recuperato spazi di contatto profondo con i propri cari, hanno potuto vivere con i figli momenti diversi e unici (dal semplice fare colazione tutti insieme, a vederli all’opera mentre parlano inglese, ecc.). Cosi come con il partner hanno recuperato uno spazio di dialogo e condivisione più profondo, ed è proprio in questo nucleo familiare che attingiamo le energie necessaria per restare centrati e ben funzionanti. Ecco che quindi scatta l’allarme per le situazioni in cui, al contrario, la famiglia non sia un luogo sicuro ma frutto di relazioni logore o addirittura violente. L’ultimo fattore di protezione è l’appartenenza alla comunità. Allargando il cerchio alla sfera sociale diventa fattore predittivo di resilienza: il coinvolgimento in contesti di gruppo dei pari, in attività di solidarietà nei confronti della comunità. Chi riesce a tessere questa rete preziosissima di relazioni (familiari e sociali) sarà più protetto negli eventi critici, un paracadute emotivo che permette di atterrare meno bruscamente sul suolo dissestato creato dall’emergenza. I tipi di relazioni a cui mi sto riferendo, sono quelle più preziose, che rappresentano la spinta alla nostra realizzazione ed esistenza, non legate alla quantità bensì alla qualità: posso vivere in una famiglia numerosa e sentirmi abbandonato, posso avere molti amici sui social e sentirmi escluso, posso far parte di un gruppo e provare solitudine. L’ elemento decisivo sta nel desiderio e nella capacità che abbiamo di condividere, di sentirci ascoltati e compresi, di saperci aprire, di dare fiducia a noi stessi e agli altri. Posso dire che come psicologa è stato davvero emozionante vedere espresso spontaneamente e su cosi larga scala il bisogno di contatto con l’altro di fronte ad una emergenza. L’altro che sul balcone di fronte o accanto stava vivendo la mia stessa situazione. E’ davvero un evento raro, avere una intera comunità sottoposta allo stesso evento critico. Ci siamo affacciati con la nostra famiglia e cantando le canzoni più popolari per la nostra cultura, ci siamo detti che “ci siamo”, che siamo ancora presenti a noi stessi, che sentiamo il peso di questa situazione e che ci riconosciamo nell’altro. Sarà questo il grande punto di partenza: far si che una volta scesi in strada ci ricordiamo, come gruppo, di come ci siamo sentiti su quei balconi.